Narrami O Musa: vincitore! - Un lettore è un gran sognatore | Blog di letteratura, storia, cultura, teatro

venerdì 13 marzo 2015

Narrami O Musa: vincitore!

Bene, mi era sfuggita questa email e l'ho ritrovata solo ieri sera!

Intanto, mi scuso per il ritardo con cui pubblico questo post e ringrazio ancora Ezio di Un buon libro non finisce mai per avermi chiesto di fare da giuria!

Insieme a Ilenia (I libri di cristallo) e Stefania (La ragazza che annusava libri), abbiamo decretato il vincitore della quinta sessione del laboratorio di scrittura "Narrami O Musa": il racconto doveva essere a carattere distopico. È stato un vero onore per me ricevere l'email di Ezio, seguo spesso il suo blog quindi potete immaginare quanto mi abbia fatto piacere!

I racconti erano tutti molto carini, ma siete curiosi di sapere chi ha vinto?

Viva la morte 

Nell'ultima città viva del mondo, esistono due sole realtà; la vita terrestre e il paradiso. Nessun inferno, nessun purgatorio. La metropolitana era un luogo che Diana odiava. Ovunque, persino nelle gallerie, compariva la frase dei negromanti: "La morte è un nuovo inizio" formata da led bianchi che a intermittenza picchiavano le sue iridi. Anche la voce che annunciava le fermate diceva: "Piazza degli impiccati. Prossima fermata, palazzo degli angeli. Ricorda, la morte è un nuovo inizio!" ma ciò che più Diana odiava erano le persone. Quando vide un ragazzo curvo e vestito di stracci sporchi entrare dalle porte manuali e cigolanti, capì immediatamente ciò che sarebbe accaduto. La donna sospirò e si voltò dal lato opposto, specchiandosi nell'opaco vetro del treno. Nel riflesso però vide anche quell'uomo dall'aspetto trasandato. «La morte è un nuovo inizio...» stava balbettando. «Un nuovo... inizio...» Diana chiuse le palpebre per non guardare. Quando le riaprì, due minuti dopo, l'uomo aveva smesso di respirare. Nella mano destra reggeva una siringa verde, la stessa nella locandina appesa dietro tutti i sedili della metro. "La morte è verde come la speranza" diceva, "per un nuovo inizio veloce e indolore, compra il Marion dal tuo rivenditore di fiducia, prodotto garantito dalla società dei negromanti" "Palazzo degli angeli. Prossima fermata, via sette luglio. Ricorda, la morte è un nuovo inizio" disse la voce automatica. Diana sospirò e si passò una mano sul volto, stanca per le quattordici ore di lavoro al bar. La metropolitana però non ripartì e una spia rossa si accese in tutte le cabine. Allora la donna, rassegnata, aprì le porte tirando con forza e uscì dal treno, guardandosi intorno. A due carrozze dalla sua una delle porte era rimasta aperta. S'incamminò lentamente verso di essa ma due passi dopo qualcuno la richiuse dall'interno. Nel treno lampeggiarono le luci e si spensero le spie rosse. «No!» urlò Diana colpendo il finestrino con un pugno. Il treno sfiatò, tremò e ripartì, lasciandola da sola nella stazione sotterranea. L'ultimo treno della notte l'aveva abbandonata sotto le affollate strade del palazzo degli angeli, il luogo che lei amava certamente meno di tutti gli altri. Diana poteva essere definita in molti modi, ma di certo non bella. Spesso le dicevano che era fredda, indifferente, asociale. Una volta però, prima degli eventi del sette luglio, le persone la definivano allegra e simpatica. La sua risata stramba sfociava in versi di maiale e questo più di tutti divertiva le persone accanto a lei. Adesso però Diana non aveva più motivi per ridere. Nemmeno uno. Il trambusto si udiva già dall'ultimo sotterraneo che attraversava la strada e che sfociava nella via degli angeli. Urla, musica a tutto volume, auto, clacson, di tanto in tanto anche fuochi d'artificio. Una volta all'esterno, sospirò pesantemente alla vista di tutte quelle persone gioiose, abbassò la testa e riprese a camminare verso casa. A piedi il suo appartamento era lontano un'ora dal centro in cui adesso si trovava. Forse per i suoi abiti fin troppo pesanti per quella calda estate, forse perché era l'unica che non lodava la rinascita, tutti si voltavano a guardarla quando Diana passava loro accanto. Tra commenti sarcastici e risa, la donna avanzò spedita tra la calca di gente sperando che nessuno di essi le desse fastidio. Quando passò accanto al grande palazzo degli angeli però, non riuscì a non sollevare lo sguardo. Un blocco di marmo immenso e candido, pieno di sculture di angeli e costruito a cubi come una piramide di forma rettangolare, che ora diventava più magra ora più spessa. Una struttura fatta di soli spigoli sopra la quale i più impavidi ci si arrampicavano, perché chi riusciva a raggiungere la sommità del palazzo poteva per legge diventare uno dei prescelti, un Dio al di sopra dei negromanti. Era quello il destino dell'umanità. Soffrire sulla terra, morire e diventare un angelo o scalare la torre e conquistare lo status di divino. I cubi del grande palazzo però si muovevano sempre, mossi da macchinari la torre cambiava continuamente forma. I più impavidi raggiungevano i duecento metri, la maggior parte invece cadeva prima ancora dei cento. Nessuna disperazione però. Quando Diana vide il corpo di un uomo precipitare nel piazzale, si voltò dal lato opposto per non assistere allo schianto, mentre la folla impazziva dall'entusiasmo. Anche chi moriva in quel modo poteva diventare un angelo. I negromanti, avvolti da nere tuniche, sapevano sempre quando qualcuno perdeva la vita. Apparivano come dal nulla e portavano via il suo cadavere. Poi, qualche giorno dopo, i familiari o anche i soli conoscenti della vittima, ricevevano un video nel quale questo li salutava gioiosamente, rassicurandoli. Diana conservava ancora il video di suo marito e dei suoi figli in una piccola scheda di memoria che nascondeva nel suo orologio.
Una mano aiutò Diana a sollevarsi da terra e le pulì gli abiti sporchi con un paio di pacche. Quando questa si voltò, vide che era stato un negromante a salvarla. La sua sola presenza aveva spaventato i suoi aggressori e adesso che ne vedeva uno più da vicino, capì il perché tutti li temessero. Il cappuccio nero calato sulla testa non riusciva comunque a oscurargli il volto. Il negromante aveva occhi rossi come il fuoco che illuminavano un volto morto, ruvido, talmente scarno che sembrava non avere carne. Anche le sue mani erano terrificanti, nere come la pece e con unghia lunghe e spesse e sporche. «La... la ringrazio» balbettò Diana nonostante non lo pensasse davvero. Il negromante, senza dire una parola, cacciò da sotto le vesti lunghe una boccetta di Marion. La donna accettò il dono con le mani che le tremavano. Il negromante aprì anche l'altra mano e le mostrò un biglietto tutto spiegazzato. Diana afferrò anche quello. L'uomo si voltò e andò via, lasciandola sola e in preda alla confusione. Diana aprì la porta di casa e si precipitò di corsa al suo interno. Chiuse a chiave dando tutti i giri possibili e si schiacciò di spalle contro di essa, respirando affannosamente. Lentamente smarrì le forze e le sue ginocchia cedettero. Cadde per terra, si abbracciò le gambe e lasciò cadere il foglietto per terra. La scritta “Mi manchi” era indubbiamente opera di suo figlio minore. La scrittura malferma e la C che lui scriveva sempre dal lato sbagliato erano un marchio inconfondibile. Era davvero possibile? Lei non credeva che la morte fosse un nuovo inizio, non credeva nel paradiso o nella felicità. Non voleva abbandonare la terra, il luogo in cui era nata e cresciuta, il luogo in cui aveva conosciuto il suo uomo e in cui erano nati i suoi figli. Adesso però questi l'avevano abbandonata a se stessa. Ricordava ancora le espressioni spaventate dei suoi figli e la folle richiesta di suo marito. “Quanto dureremo ancora? Non possiamo permetterci un altro mese di affitto, io sono stato licenziato e tu lavori quattordici ore in uno squallido bar per guadagnare in un mese quello che spendiamo in dieci giorni tra tasse, affitto e cibo. I negromanti premiano i coraggiosi! Dobbiamo farlo. Sarà indolore, te lo prometto” ma Diana aveva scelto di non farlo, e non poteva nemmeno dissuadere loro, dal farlo. Quando i Negromanti erano giunti a prelevare i loro corpi, Diana si trovava al bar. Non poteva perdere il lavoro e poiché in quel mondo la morte era vista come un nuovo inizio, nessuno concedeva giorni liberi per un evento simile. Lei aveva pianto per giorni e giorni ma non mentre lavorava. Il gestore era una persona meschina che non concedeva seconde opportunità nemmeno a chi arrivava tardi a lavoro. 

Antonio Polosa

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