"Canto d'autunno" di Annalisa Dominjanni - Un lettore è un gran sognatore | Blog di letteratura, storia, cultura, teatro

venerdì 17 novembre 2017

"Canto d'autunno" di Annalisa Dominjanni



Dopo il temporale il bosco era avvolto dagli odori dell’autunno; le foglie si ammucchiavano sul terreno, macchie gialle e arancio, ramoscelli e gusci di castagne.
L’aria frizzante le solleticava le braccia nude e le guance. Solo la natura riusciva a placare il suo bisogno di appartenere a qualcosa, quando il mondo circostante sembrava essere impazzito. File chilometriche nei centri commerciali per acquistare l’ultimo
I-Phone, amicizie e amori virtuali, emozioni preconfezionate come scatole di cioccolatini stantii.
La magnificenza delle querce la faceva sentire piccola e insignificante, certo, ma parte di un tutto in cui ogni più piccola forma di vita aveva un perché.
Amava perdersi tra i sentieri più erti e scalare le colline oltre le quali si affacciava il lago, blu e verde, perfettamente circolare e placido.
Anita indossò il golfino che aveva portato con sé: l’autunno era ormai inoltrato e i primi freddi si facevano sentire.
Il bosco era vibrante di vita; era certa di poter sentire la linfa scorrere negli alberi, nutrimento terrestre. Ossigeno, magia e mistero: il bosco non si smentiva mai.
Tornata da poco dalla città, dove lavorava come insegnante, Anita sentiva la mancanza della sua foresta, come un figlio che avverte quella della propria madre. Non poteva resistere al richiamo di Madre Natura: poteva spogliarsi di tutto il superfluo quando, come ora, si accucciava ai piedi di un albero e restava in ascolto del mondo che la circondava.
Il respiro del vento fra le fronde, il cinguettio impazzito degli uccelli, lo zampettìo curioso di una volpe che fece capolino da dietro un cespuglio di ribes. Quattro cuccioli la seguivano, fiduciosi.
Anita non sentiva più suo il mondo che la circondava né riconosceva gli abitanti come suoi simili. Tuttavia, a volte, sentiva di dover appartenere a qualcuno oltre a se stessa, per non perdere la memoria di ciò che era e sarebbe stata. Lottare contro se stessa non le interessava più: erano stati gli anni più inutili quelli spesi a essere ciò che non era. Era giunta ormai alla conclusione che l’essenza non poteva essere rimpiazzata dall’apparenza.
L’abbaiare di un cane la riportò alla realtà. Era un bel pastore scozzese, il pelo lucido e il muso simpatico.
Anita allungò la mano per farsi odorare e il cane avvicinò il tartufo umido alle sue dita. Le leccò scodinzolando festaiolo.
«Dov’è il tuo padrone?» chiese, carezzandolo tra le orecchie. «Quando ero piccola avevo un cane come te, lo sai?»
«Diana!» la voce stentorea di un uomo mise in allerta la cagnetta.
Un giovane alto e dai colori dell’autunno sbucò da oltre un rovere, lo sguardo sollevato per aver ritrovato l’animale.
Anita si alzò lentamente e si avvicinò allo sconosciuto. Il cane corse dal padrone, abbaiando gioioso.
«Eccoti finalmente» rise di gusto lui, carezzandole la testa quando, su due zampe, il cane gli appoggiò quelle anteriori sul petto. «Spero Diana non l’abbia spaventata» disse poi, rivolto a lei.
Il suo sorriso era gentile, luminoso.
«Il suo cane è buonissimo» rispose Anita sorridendo a sua volta.
Gli occhi di lui erano profondi e sinceri, distese di velluto scuro.
«Giacomo» lui le tese la mano, un muscolo si contrasse all’angolo della bocca.
«Anita»
Fu una scintilla di pura energia quella che lei avvertì scorrerle lungo la schiena.
Diana scodinzolava ed uggiolava, irrequieta.
«La sua mano è gelida» notò lui, racchiudendola nell’altra.
«Forse dovevo indossare qualcosa di più pesante» si giustificò Anita, portandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli.
«Posso offrirle una cioccolata calda? Casa mia è a pochi passi» si offrì Giacomo, guardandole le labbra.
«Grazie» Anita annuì.
S’incamminarono, in silenzio, calpestando foglie e ramoscelli, sprigionando odori di sottobosco e frutti rossi.
«Anche lei abita qui?» le chiese finalmente Giacomo, tornando a guardarla.
«No, abito in città. Sono qui per il ponte di Ogni Santi. Sono un’insegnante»
«Cosa insegna?»
«Letteratura»
Restarono in silenzio per il resto del tragitto e ad Anita piacque.
V’era un’atmosfera sognante intorno a loro e parlare avrebbe potuto guastarla. A volte è solo il silenzio l’unica parola necessaria.
La casa di Giacomo era un’antica legnaia riconvertita in abitazione. Completamente in legno, raccolta ed intima, sembrava la dimora di un reame fatato.
Anita si sentì subito a suo agio: percepiva energie positive in quella piccola casa, con il caminetto acceso, una macchina da scrivere su un tavolaccio di legno grezzo e il giaciglio del cane, un vecchio cuscino rivestito di tartan.
Essenziale eppure completa, colma di emozioni.
«Lei scrive?» chiese Anita, andando verso il camino.
Era infreddolita.
«Sì, sono uno scrittore. Questo è il mio rifugio, quando non ho ispirazione» ammise Giacomo, trafficando nel piccolo cucinotto, tra i pentolini e la stufa a legna.
«Allora ho invaso i suoi spazi, mi dispiace» Anita si sentì di troppo.
Giacomo si voltò, le braccia conserte sulla polo blu. Sorrise dolcemente, scuotendo impercettibilmente la testa.
«Non appena le ho stretto la mano, ho avvertito un’energia positiva. E, poi, sono stato io ad invitarla»
«Mi conosce appena, come può dirlo?» Anita rise.
«Empatia» lui fece spallucce, un sorriso in fondo agli occhi.
Anita si limitò a sorridere: lei stessa si affidava all’istinto, come una gatta selvatica.
«Si accomodi, la prego» Giacomo tolse libri e fogli dalla sedia.
«A cosa sta lavorando?» chiese Anita, sedendosi.
Giacomo sospirò, tornando ai fornelli.
«È la storia di un uomo che ha perso la strada… e non sa ritrovarsi. Un pesce fuor d’acqua in un mondo di fango»
Anita capiva perfettamente come Giacomo potesse sentirsi: lei stessa si trovava ad affogare in quella melma.
«Il protagonista ritroverà la strada?»
«Ancora non lo so»
Giacomo tornò al tavolo: portava due tazze di cioccolata fumante e delle lingue di gatto, il tutto adagiato su un vassoio patchwork.
«Stia attenta a non bruciarsi: è bollente» disse lui, togliendo dal tavolo la macchina da scrivere.
«È raro trovare chi scrive ancora con una Olivetti» disse Anita, inzuppando un biscotto nella cioccolata.
«Odio i programmi di scrittura sul PC, sa? Amo sentire il suono delle lettere che s’imprimono sulla carta, come i nomi e i volti che s’imprimono nella memoria» Giacomo si sporse un poco verso di lei, gli occhi negli occhi.
Anita abbassò lo sguardo e sorrise.
«Come può non sapere la trama del suo romanzo?» chiese Anita.
Provava una profonda curiosità per Giacomo e per il suo modo di scrivere, così lontano da quello di molti scrittori.
«Non scrivo mai una trama dettagliata e se lo faccio cambia nel tempo. Loro, i miei personaggi, vivono con me» lui sorrise da oltre il bordo della tazza. «Le sembrerò pazzo… ma io li sento. Mi parlano di loro, mi raccontano la loro storia, io sono solo un tramite»
Anita rise di gusto.
«No, non la credo affatto pazzo, almeno non più della maggior parte degli artisti»
Risero insieme e anche Diana, accucciata sul cuscino, sembrò seguirli nella loro ilarità, uggiolando e scodinzolando felice.
«Posso scrivere per ore intere, senza mangiare o dormire. Quando sono ispirato, non posso fermarmi» ammise Giacomo, prendendo un biscotto.
«E ora che non ha ispirazione, cosa fa per scrivere?» Anita si appoggiò allo schienale della sedia, osservandolo con curiosità.
Era un uomo massiccio, atletico, ma emanava tenerezza e sensibilità.
«Mi sforzo di scrivere, anche solo una riga al giorno: la continuità è fondamentale. Esco, passeggio nel bosco, faccio meditazione» lui alzò le spalle, forse un poco sconfortato.
«E funziona?»
«Ancora non lo so. Sono qui da pochi giorni»
Rimasero in silenzio a lungo, sorseggiando la cioccolata in ascolto del bosco e del mondo fuori dal rifugio. Il crepitio del fuoco e il respiro del cane creavano un’atmosfera rustica, quasi fosse una isba russa dei racconti di Turgenev.
«Vive di soli libri?» chiese, rimestando la cioccolata nella tazza.
L’energia emanata da Giacomo era talmente potente da sentirsene completamente avvolta, come una coperta di calore e passione. Lo desiderava, voleva sentire quell’emozione entrarle dentro e purificarla, come un fuoco sacro.
«Sono un professore universitario di Filosofia. Ho preso un anno sabatico: non sapevo più se l’università fosse davvero la mia strada» Giacomo bevve un sorso di cioccolata, un braccio piegato di traverso sul tavolo.
«Allora è lei il protagonista del romanzo» disse Anita
«Forse sì. O forse è solo una parte di me. Devo ancora scoprirlo.» lui abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle, quasi a volersi ritirare in se stesso.
«L’ho messa a disagio» Anita si sentì in colpa.
Spesso dimenticava la delicatezza e l’attenzione verso il prossimo.
Giacomo scosse la testa, alzando le spalle in un gesto di non curanza.
«È una persona curiosa, non mi ha messo a disagio. Sono una persona molto riservata»
Anita avvertì una nota stonata nella sua voce. Lasciò il cucchiaino nella tazza e fece per alzarsi, ma lui le prese una mano, il tocco delicato.
«Vuole restare per cena?» le chiese, uno spasimo alla gola.
Anita sentì il fiotto di emozione di lui aprirle un varco nell’anima.
«Sì» annuì, la voce un soffio.
Prepararono la cena insieme, ascoltando un po’ di jazz e di swing, accorciando le distanze tra di loro.
Cenarono con polenta, formaggio e uova; Anita aveva preparato velocemente una torta, sotto l’occhio esperto di Giacomo che si dichiarava un ottimo cuoco. Era vero.
Lessero poesie di Emily Dickinson dopo cena, alla luce del camino e di qualche candela: Giacomo odiava la luce artificiale delle lampade.
Era tutto così surreale, come vivere in un altro mondo. La connessione emozionale con Giacomo superava anche il mero desiderio sessuale: era la condivisione della conoscenza a unirli in modo così profondo. Ad Anita sembrava di conoscerlo da sempre, come se i loro cammini fossero stati destinati o incrociati fin dalla nascita. 
«Nessuna vita è sferica 
Tranne le più ristretta: 
queste son presto colme, si svelano e hanno termine. 
Le grandi maturano più lente, 
come più a lungo oscillano sul ramo… 
Sono lunghe le estati delle esperidi» 
Lesse lei, sentendo già le lacrime pizzicarle gli occhi. «Mi perdoni. Mi emoziono per nulla» 
«È proprio questo il suo lato più affascinante» Giacomo le prese il volto tra le mani e la baciò. Il contatto tra le loro lingue, umide e guizzanti, rese il desiderio ancora più acuto, quasi doloroso. 
Salirono mano nella mano, nella camera da letto al piano superiore, continuando a baciarsi e a toccarsi, terre straniere. Lui la spinse gentilmente sul letto, togliendole pantaloni e mutandine. Affondò il volto tra le sue cosce, amandola con la bocca, le mani calde e gentili sui fianchi.
Anita si abbandonò a lui, aprendosi completamente, ansimando e gemendo, succube di ogni emozione. Lo sentì spogliarsi, il fruscio degli abiti sulla pelle, la penetrò dolcemente, gemendo contro le sue labbra. 
Erano insieme, erano uniti con la mente e con il corpo. Cavalcarono insieme verso il piacere, finché non raggiunsero all’unisono l’acme, gridando nell’estasi finale. Rimasero abbracciati nel buio, i respiri in perfetta sintonia. 
Anita si sentiva completa, assente il bisogno di fare domande. Era successo quel che doveva accadere e un senso di pace la pervadeva. Non voleva pensare, non voleva agire, tutto ciò che desiderava era state esattamente dov’era e vivere. 
Domani tutto sarebbe finito, l’alba avrebbe portato via gli ultimi barlumi d’illusione e la vita, quella vera, sarebbe ricominciata a scorrere. Ma essere lì, ora, tra le braccia di Giacomo era l’unica realtà. 
Il futuro era una proiezione delle proprie paure e debolezze, lo spettro di non poter essere ciò che voleva. Una gabbia del tempo. 
Ferma e immobile, la felicità era qualcosa di fortemente vacuo ed instabile, uno stato d’animo più che una condizione dell’essere. 
 «Ci ricorderemo per molto tempo questa notte» sussurrò Giacomo, stringendola a sé. «Sì» annuì Anita, intorpidita dal languore. 
«L’essenza stessa dell’uomo è nella memoria, Anita. Tutto ciò che siamo è frutto del ricordo» lui le baciò la fronte, guardandola negli occhi. 
Si fece improvvisamente serio e ad Anita parve quasi d’intravedere il suo mondo, al di là delle sue iridi, muoversi sul fondo delle pupille dilatate. 
Vi era entrata? Era riuscita almeno a sfiorarlo? 
«Ognuno è un universo; ci muoviamo così velocemente e solo in poche occasioni possiamo davvero sfiorarci. Ed è questo sfiorarsi reciproco a fare la differenza. Ci sono persone che si illudono di poter entrare nel mondo dell’altro, di viverci senza perdersi. È sbagliato e pericoloso smarrire la via per seguire quella di un altro» 
Giacomo ridacchiò. «Dovresti prendere la mia cattedra» 
Si sfiorarono di nuovo, si unirono ancora e ancora, nella notte che sembrava infinita. Ma l’alba venne, dorata ed eterea. 
Anita si lasciò Giacomo alle spalle, la scia di una galassia dentro di sé. 
La felicità è una piccola cosa, stava a lei farne un grande ricordo.   

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